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L’AMERICA DEI PIONIERI DEL MODERNO

21 agosto 2018
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Il Midwest americano da Buffalo a Chicago, passando da Pittsburgh e il Wisconsin, nella Mezzaluna Fertile dell’architettura dove è stato inventato un nuovo stile.

Siamo all’inizio del XX secolo. Edouard Jeanneret non era ancora Le Corbusier ma solo un ragazzino che aiutava il padre ad assemblare orologi e l’architettura – quella che noi chiamiamo moderna – nel vecchio continente non esisteva ancora.
Di là no: dall’altra parte dell’oceano il grattacielo, ovvero il simbolo indiscusso del nuovo secolo (che non a caso terminerà drammaticamente proprio nel settembre 2001), era la normalità almeno da un decina d’anni. No, New York non c’entrava nulla, non ancora almeno. Alla fine dell’Ottocento Manhattan era, per lo più, ancora disseminata di casette in legno e palazzi. La modernità, le avanguardie, il futuro insomma stavano più in là, nel West, verso la frontiera, che a quel tempo era rappresentata però non dalla California bensì dal Mississipi.

Oggi è piuttosto raro persino conoscere dove sia un posto come Buffalo che di certo non  stuzzica la fantasia di noi viaggiatori europei. Freddissima, a tratti inospitale, con un clima da novembre a marzo quasi polare e a due passi – letteralmente – dal Canada è oggi la seconda città per importanza dello Stato di New York. Sì, nello stesso stato della Grande Mela, ma questo non vi inganni: siamo comunque a seicento chilometri distanza, su a “upstate”, come dicono qui, affacciata sul lago Erie.

Detto del clima e confermato che ci sono luoghi, e non pochi, che varrebbe la pena visitare prima, è però interessante scoprire che alla fine del XIX secolo Buffalo era un posto ben diverso. Ad esempio, per dirne una, era una città ricchissima. Una delle più ricche del mondo. Come era stato possibile? Be’, nei sobborghi della città c’era uno scosceso dirupo che circa dieci mila anni prima, al termine della Glaciazione, era stato raggiunto dalle abbondanti acque del fiume Niagara creando una delle cascate più straordinarie del pianeta. Fin qui tutto normale, ma nel 1895 un geniale scienziato di origine ungherese con un nome diventato oggi molto noto aveva costruito lì la più grande centrale idroelettrica del mondo; il suo nome era Nikola Tesla. Improvvisamente la piccola Buffalo – che solo pochi anni prima era stata raggiunta anche dall’Erie Canal, un lunghissimo alveo artificiale che la collegava ad Albany e, da lì, attraverso il fiume Hudson, con New York e quindi l’Oceano Atlantico – si trasformò magicamente in uno dei centri industriali più importanti degli Stati Uniti. I soldi arrivarono rapidamente e, a inizio Novecento, la città era addirittura la Ville Lumiere del nuovo mondo; nel senso che fu la prima a poter vantare un sistema di illuminazione pubblica. Con i lampioni nelle strade arrivarono però anche i grandi industriali e presto, al loro seguito, anche i più importanti architetti dell’epoca.

Louis Sullivan per esempio, il pioniere del moderno, il più talentuoso della cosiddetta Scuola di Chicago, realizzerà proprio qui, a Buffalo, quello che potrebbe essere definito il suo testamento professionale: il Guaranty Building. Pochi anni dopo il migliore dei suoi discepoli (ma anche il migliore di tutti, punto), Frank Lloyd Wright, scenderà sulle sponde del lago Erie per progettare i nuovi uffici di una fabbrica di saponi in grande ascesa, la Larkin.
Un capolavoro rivoluzionario. Una cattedrale di cemento intorno a un luminoso atrio a tutta altezza di ben cinque piani. Ci aveva messo persino un organo, come in ogni chiesa che si rispetti, con le cui melodie veniva allietato il lavoro degli impiegati. Verrebbe a questo punto da domandarsi che cosa diavolo passasse per la testa agli amministratori cittadini quando negli anni sessanta decisero di demolire tutto. Fortunatamente durante questo progetto Wright strinse una duratura amicizia con uno degli amministratori dell’azienda, un certo Darwin Martin, per il quale progetterà una casa notevolissima che renderà la visita a Buffalo comunque irrinunciabile.

pionieri del moderno

La Pennsylvania non è lontana da qui, seguendo le rive del lago Erie, in un paio d’ore si raggiunge il “Keystone State”, come viene definita dal momento che la storia del paese è sostanzialmente iniziata qui. Philadelphia è la città più nota, nonché prima capitale dell’Unione, ma Pittsburgh, nell’entroterra, ne è il motore economico. Prodotti tipici: acciaio, acciaio e acciaio. Non a caso il film di riferimento da queste parti è Flashdance, e infatti ricordate che lavoro faceva la bella protagonista con la passione per il ballo interpretata da Jennifer Beals?
Ebbene gli operai delle acciaierie amavano però fare acquisti; soprattutto amavano il più grande department store cittadino che si chiamava Kaufmann’s. I proprietari, ricchissimi, decisero a un certo punto di costruirsi una casa fuori Pittsburgh, in mezzo a un bosco lussureggiante e di fronte a un piccolo ruscello. Il figlio del signor Kaufmann lavorava in quegli anni da un architetto in Wisconsin che accetterà l’incarico ma pretenderà che la casa sorga non affacciata ma proprio sul ruscello. Da allora in poi questo luogo sarà semplicemente Fallingwater.

Eppure tutta l’architettura moderna americana viene da un posto; il problema è che quel posto dalla Pennsylvania dista ottocento chilometri. Ci sta un mondo nel mezzo, ci sta l’Ohio ad esempio. Gli stati americani hanno tutti qualcosa di affascinante, ognuno a modo suo, e la peculiarità dell’Ohio ad esempio è di essere, tra i cinquanta, il più brutto.
Cleveland, la città simbolo, prima di Lebron James era famosa esclusivamente per il suo soprannome “The Mistake by the Lake”, la città più brutta d’America. Irrinunciabile.
A dire la verità gli abitanti non erano così entusiasti del loro primato e hanno cercato in ogni modo di scrollarsi di dosso questo soprannome. Ci provarono ad esempio negli anni ottanta cercando di entrare nel Guinness dei Primati. Si sono detti “facciamo il più grande lancio di palloncini ad elio della storia”. Bell’idea, spettacolo sbalorditivo, tutti a bocca aperta ad applaudire…per i primi cinque minuti, poi – sfiga – a causa di una perturbazione un milione e mezzo di palloncini sono esplosi all’unisono ricadendo a terra. Risultato: due morti, un paio di atterraggi di emergenza nell’aeroporto locale e una costosa operazione di bonifica per ripulire il lago durata due anni. Non benissimo.
Ci hanno riprovato qualche anno dopo e hanno commissionato a Ieoh Ming Pei – famoso e famigerato per la piramide del Louvre – la costruzione dell’enorme Rock and Roll Hall Fame. Vi chiederete perchè realizzare il Pantheon del Rock proprio a Cleveland: ebbene la risposta ufficiale è che era di qui il conduttore Alan Freed, che ebbe il merito nientemeno che di inventare la parola Rock’n Roll. Tutto qui? Ok, deboluccia come spiegazione… aggiungiamo però che la municipalità di Cleveland ha, per così dire, facilitato la scelta mettendo sul piatto 65 (sessantacinque) milioni di dollari, con buona pace di due capitali della musica come Memphis e Detroit.

Dopo aver toccato, solo per le statistiche, anche l’Indiana, finalmente l’arrivo nella terra promessa: Chicago, Illinois. Come abbiamo visto per Buffalo, laghi e canali erano importantissimi all’epoca. Ebbene Chicago, affacciata sullo sconfinato specchio d’acqua del Michigan, fu collegata nel 1849 direttamente col Mississipi. In pratica era così diventata un approdo tra i Grandi Laghi del Nord e il Golfo del Messico, il crocevia ideale del continente. Qua approdavano e venivano poi smistate in tutto il paese merci di ogni tipo legname, carbone, acciaio ma anche costosissimi pellami e le carni, il più grande meatpacking district del mondo… a questo proposito avete presente il nome della squadra locale di basket nella quale il 23 più famoso di ogni tempo strabiliò il mondo? Ecco appunto i Bulls, e sappiamo il perchè.

La crescita fu sensazionale, anche perché poco dopo arrivò anche le ferrovia a trasformare quello che a inizio secolo era solo un avamposto militare nella Second City d’America (oggi la terza ma come detto allora, la California e Los Angeles non erano ancora sulle mappe). La rivoluzione industriale a stelle e strisce andò in scena qua. Milioni di persone, nere di solito, emigrarono da queste parti, spesso proprio su treni merci – o per meglio dire carri bestiame – con 19 dollari direttamente da Memphis, lasciandosi alle spalle la schiavitù e la fatica dei campi di cotone della Georgia, dell’Alabama del Tennessee e così via. Si portarono dietro le poche cose che avevano: il desiderio di una vita migliore e quell’istinto musicale unico che si era da poco sviluppato sul Delta del grande fiume col quale diedero vita al Blues e al Jazz, due stili musicali di cui Chicago diventerà capitale e che cambieranno la cultura del mondo.

La città iniziò a crescere in modo frenetico e caotico, con le sue sterminate casette in legno che la nuova tecnologia del Balloon Frame permetteva di tirare su facilmente come mai prima. Poi però – e siamo nel 1871 – arrivò il fuoco. Come a Londra due secoli prima un incendio distruggerà tutto. Tre giorni di fiamme alte venti metri e Chicago non c’era più, letteralmente rasa al suolo.
Occorreva ricostruirla e questa volta si decise di usare però l’acciaio che  – come abbiamo visto – da queste parti abbondava. Insomma essere architetto, preferibilmente giovane, a Chicago alla fine dell’Ottocento significava letteralmente trovarsi nel posto giusto nell momento giusto. 

Come nella Firenze del Rinascimento anche questa storia sarà scritta dalla più prolifica e geniale generazione di progettisti che si sia mai vista in questo continente. Tutto iniziò con William LeBaron Jenney, un ingegnere che pare fosse un uomo burbero e non di rado violento e anche totalmente privo di cultura, ma quando si trattava di strutture non aveva eguali. Intuì, per primo, le possibilità della struttura a telaio d’acciaio e di fatto inventò il grattacielo. Dankmar Adler, che con Sullivan diede vita ai ‘Lennon e McCartney’ dell’architettura moderna, e ovviamente Daniel Burnham, ricordato in genere per l’iconico Flat Iron Building che è oggi uno dei simboli di New York, ma che prima ancora aveva realizzato a Chicago due dei grattacieli più belli e affascinanti di ogni tempo.

fallingwaterUn quindicennio appena, tanto bastò a questo manipolo di progettisti per mettere Chicago sui libri di storia e per inventare l’architettura moderna; poi, al volgere del secolo, molti di loro sembrarono voler rinnegare tutto e, come dei veri propri reazionari, si convertirono al citazionismo dello stile eclettico che sbarcò a Chicago con l’Esposizione Universale del 1893 e la sua White City in stile vittoriano. La mancanza di un passato nobile che aveva permesso loro di liberarsi del superfluo in virtù del funzionalismo – a differenza di quanto avvenne in Europa – divenne improvvisamente qualcosa di cui vergognarsi e così, inconsapevoli di essere all’avanguardia, imitarono un passato che in realtà era già sfiorito. Solo Sullivan ebbe la lucidità di rendersi conto di ciò e di biasimare questa scelta; ma non fu ascoltato, anzi, venne isolato dall’accademia, abbandonato dal suo socio Adler e gli furono precluse altre opportunità significative di realizzare la sua architettura. Così, come accade alle vecchie glorie ormai in disgrazia, l’alcolismo e la rabbia per un mondo che non si accorgeva di sbagliare lo distrussero poco a poco in un tragico e beffardo destino.

Rimase però il suo allievo prediletto a difenderne almeno la memoria. Frank Lloyd Wright che diverrà il più grande architetto americano – o per molti il più grande di tutti – avrà il merito di far riscoprire al mondo anche la grandezza del suo maestro. Nato in Wisconsin il giovane Frank si era formato nello studio Adler & Sullivan con sede sulla torre del Chicago Auditorium da loro stessi progettato e ha disseminato nei successivi settant’anni capolavori in tutta la nazione. Case per lo più, e qualche altro gioiello: l’Unity Temple ad esempio, nel sobborgo di Oak Park, ma anche Taliesin East o la Johnson Wax. Per vedere questi ultimi bisogna spingersi fino al vicino Wisconsin, uno degli stati meno conosciuti ma più affascinanti dell’Unione. Verdissimo e sonnolento, ovviamente affacciato sull’immancabile lago, è qui che si trova Green Bay, piccolo villaggio ma superpotenza del Football, il cui nome riassume perfettamente questa parte degli Stati Uniti.
A Spring Hill sorge Talesin – che in gallese significa appunto “collina luminosa” – dove Wright creò il proprio studio-comunità. È qui che nel 1914 ebbe luogo il tragico e spaventoso episodio che segnerà tutta la sua vita. A Racine invece si possono ammirare gli uffici della Johnson Wax, per certi versi l’opera più sorprendente di tutte.

L’America del resto passa anche da qua. Dalle anonime pianure del midwest laddove è nato il capitalismo e assieme a questo il grattacielo prima e l’architettura di questo paese poi. Un paese che ha iniziato qui a costruire la sua storia.

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Primo giorno: Buffalo, NY
Guaranty Building  Louis Sullivan, 1894

L’ultimo, orgoglioso, sussulto dello stile di Chicago; cosí può essere definito questo edificio. Sullivan, a differenza dei suoi colleghi, non rinnegò mai la modernità rifiutando ostinatamente di convertirsi all’eclettismo Beaux-Arts. Cosí nel 1894 realizza questo grattacielo con una struttura totalmente in acciaio e un rivestimento in terracotta finemente decorato – quasi intarsiato, potremmo dire – con un motivo floreale. Il riferimento a Morris era tutt’altro che casuale. «La forma segue la funzione» amava ripetere, non poteva dunque tollerare quella roba neogotica o vittoriana che improvvisamente avevano iniziato ad andar di moda.

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Ciononostante non appena questo elegante edificio fu concluso anche l’ultimo compagno di battaglia, l’amico fraterno Dankmar Adler, lo abbandonò. Lo studio si sciolse e Sullivan smise di lavorare, fu isolato, quasi boicottato dalla comunità architettonica che continuò senza pace a biasimare ed accusare di tradimento. Il moderno era tutt’altro.
Non sono non fu ascoltato ma anzi compatito e deriso. La delusione fu cocente, insopportabile al punto che, poco a poco, iniziò a rifugiarsi sempre più spesso nell’alcool. Non progetterà mai più nulla di significativo tuttavia – come vedremo domani con il prossimo edificio – la sua tragica battaglia fu vinta da Frank Lloyd Wright, il suo allievo prediletto.

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Secondo giorno: Buffalo, NY
Martin House – Frank Lloyd Wright, 1903

Buffalo è una città sorprendente. L’Art Deco è ancora molto visibile. Ti ci imbatti ad ogni angolo e offre un’inequivocabile testimonianza di un passato ricchissimo. Fu proprio a quel tempo che Frank Lloyd Wright venne chiamato in città per progettare i nuovi uffici di un’importante fabbrica di saponi, la Larkin Company. Il risultato? Uno degli edifici amministrativi più belli di sempre. Un capolavoro che fu però demolito. Fortunatamente – per Buffalo – durante il cantiere Wright divenne molto amico di uno degli amministratori della società, un certo William E. Martin che lo incaricò di progettargli la casa.

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Budget illimitato e una cieca fiducia da parte del committente permisero a Wright di realizzare un complesso – in effetti il termine “casa” è riduttivo – straordinario. Tre distinte abitazioni collegate da lunghi percorsi coperti e gallerie, in pratica un’impostazione planimetrica degna di Villa Adriana. Un’opera unica nel suo genere che ha al suo interno una serra decorata con una copia della Nike di Samotracia -un vezzo di Wright, che vi ricorre spesso nei progetti di quel periodo – e persino un garage. Piuttosto sorprendente per l’epoca se si considera che Henry Ford avrebbe inventato la prima auto moderna – la mitica “model T”- solo del 1908. Per molti semplicemente la migliore opera, assieme alla Casa sulla Cascata di cui parleremo domani, della prima parte della carriera del genio dì Taliesin.

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Terzo giorno: Mill Run, PA
Fallingwater – Frank Lloyd Wright, 1936

Raggiungere la sperduta Mill Run già di per sé un’esperienza mistica che conduce tra le splendide foreste della Pennsylvania. Eppure non é nulla di nemmeno paragonabile a ciò che suscita la prima apparizione, tra gli alberi, del capolavoro di Wright. La reazione istintiva é ripetersi tra sé qualcosa del tipo “ah ma allora esiste davvero”. Voluta da Edgar J. Kaufmann come casa dove trascorrere le vacanze fu concepita da Wright come un tutt’uno con l’ambiente. La scatola muraria é svanita frammentata in piani a sbalzo sospesi sulla cascata e ancorati ad una pietra attraverso la struttura del – o per meglio dire dei – camini. Una coincidenza non casuale visto che proprio Pennsylvania é definita la Keystone d’America.

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L’impianto é in realtà meno complesso di quanto non appaia dall’immagine con cui l’abbiamo imparata a conoscere ma ciò che più sorprende é lo spazio, estremamente compresso all’interno, per dilatarsi invece verso la natura all’esterno sulle grandi terrazze a sbalzo. A proposito di queste é noto che, il giorno della rimozione dei casseri, gli operai, titubanti, non volessero togliere i puntelli. Fu Wright i persona a farlo e non appena furono liberi gli sbalzi ebbero una flessione di ben venti centimetri che è tutt’ora ben visibile. Un capolavoro immenso, una casa che vale un intero viaggio.

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Quarto giorno: Chicago, IL
Auditorium Theatre – Louis Sullivan, 1889

Lasciata alle spalle la verde Pennsylvania e le monotone pianure di Ohio ed Indiana ciò che ci si trova davanti è la meraviglia di Chicago con la sua skyline riflessa al tramonto sul lago Michigan. Città di legno rasa al suolo da un incendio nel 1871 – in pratica quando Roma diveniva Capitale – solo vent’anni dopo era già la metropoli più moderna del pianeta in cui svettavano i primi grattacieli della storia.

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Louis Sullivan fu il protagonista più luminoso di quel ventennio incredibile e tra le sue opere spicca senza dubbio l’Auditorium Theatre. Certo a vederlo sembra un “normale” edificio ma si tratta in realtà di una profezia: un complesso immenso all’interno del quale ci sono il più grande teatro del mondo, alberghi e appartamenti. Il tutto dotato – e fu la prima volta – di energia elettrica e di un impianto d’aria condizionata. Un luogo straordinario che affascina ancora oggi con le sue eleganti decorazioni e la sua modernità senza tempo. Anche un giovanissimo Frank Lloyd Wright collaborò con Sullivan e il geniale strutturista Adler per questo incarico e come proprio qui assorbì alcuni aspetti che – come vedremo da domani – ritroveremo nei suoi capolavori.

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Quinto giorno: Chicago, IL
Manadnock Building e Reliance Building – Daniel Burnham, 1891 e 1895

Un architetto e due edifici a pochi isolati l’uno dall’altro per di più costruiti ad appena quattro anni di distanza che tuttavia rappresentano il principio e la fine di un cambiamento epocale. Daniel Burnham progettista geniale e contraddittorio sarà uno dei protagonisti della Scuola di Chicago salvo poi rinnegarne completamente le conquiste. Ecco, la Scuola di Chicago, ovvero una generazione di architetti fuori dal comune capace di andare oltre lo stile eclettico, abbandonando la decorazione e preferendole -grazie anche ad una spiccata componente ingegneristica- un minimale funzionalismo. Insomma Le Corbusier con una generazione d’anticipo.

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Il Monadnock di questi fu il primo, anzi l’ultimo. L’ultimo edificio con una struttura portante in muratura. Modernissimo nella sua estetica ma tecnologicamente ancora legato al passato tanto che per sopportare il peso dei suoi sedici piani i muri alla base arrivano ad uno spessore di ben due metri e mezzo.
Si doveva inventare qualcosa di altrettanto moderno anche per le strutture. Cosí, con il socio Root, misero a punto un rivoluzionario  telaio d’acciaio, leggerissimo ma resistente che sostanzialmente segnerà la scomparsa del antico concetto di “muro”.Ed ecco a questo punto il Relience Building, un salto in avanti inaudito. I muri diventano sottilissime membrane, le finestre si espandono, l’altezza cresce. Sono passati quattro anni ma sembrano quaranta.Eppure quando la modernità è ormai  una conquista Burnham la rinnega. Nel 1893, nominato capo progettista per l’Esposizione Universale, decide incredibilmente di ripiegare su uno stile Beaux-Arts. Sullivan non gliela perdonerà mai.

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Sesto giorno: Chicago, IL
Unity Temple – Frank Lloyd Wright, 1908

Il Brutalismo è un movimento architettonico nato in Inghilterra negli anni Cinquanta? No, potremmo dire piuttosto a Chicago nel 1908. In effetti già mezzo secolo prima di Smithson e Stirling, Frank Lloyd Wright, incaricato di progettare il nuovo Unity Temple di Oak Park, decide di creare non un edificio ma una sorta di monolite. Una costruzione interamente in Reinforced Concrete in cui oltretutto questo materiale, anziché essere intonacato o rifinito, viene lasciato “a vista” dimostrando per la prima volta una qualità espressiva fino ad allora ignorata.

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Per la verità Wright ripiegò su questa scelta anche per motivi economici ma la attuò con una consapevolezza che ha dell’incredibile considerata l’epoca. Se esternamente il tempio assomiglia più ad un’antica opera rupestre che ad una architettura di inizio secolo è all’interno che ritroviamo il Wright a noi più familiare. Alternanza continua di spazi compressi e claustrofobici che preparano, enfatizzandoli, ad ambienti dilatati e luminosi. Materiali e colori dai toni caldi e accoglienti, focolari baricentrici e spazi complessi scomposti in altezze variabili. In questo edificio del 1908 c’è già tutto o quasi, e a questo punto Wright ha solo trentasette anni. Altri suoi capolavori devono ancora vedere la luce come vedremo spostandoci in Wisconsin.

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Settimo giorno: Chicago, IL
Casa/Studio – Frank Lloyd Wright, 1889

Nel 1888 il giovane Frank Lloyd Wright prese in prestito 5.000 dollari da Louis Sullivan, il suo capo, per acquistare un terreno a Oak Park, sobborgo borghese della Chicago che contava. Voleva realizzare li una casa per la sua famiglia. Fu in questa occasione che Wright sperimentò molte di quelli che diventeranno i capisaldi della sua poetica: il focolare come centro della casa, la compressione- dilatazione degli spazi e persino l’albero inglobato nella costruzione..senza dimenticare soluzioni tecnologiche all’avanguardia per l’epoca come ad esempio la predisposizione per l’ impianto elettrico che sarà istallato addirittura alla fine del secolo, uno dei primi in una abitazione privata.

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Nel 1895 infatti la ampliò e ristrutturò per la prima volta, con una nuova ala adibita a stanza dei giochi e cucina, per ospitare la famiglia che si stava allargando. Il secondo intervento avvenne nel 1898, con l’aggiunta dello studio, luogo in cui Wright e i suoi collaboratori progettarono alcune tra le costruzioni più importanti del XX secolo. Un emozionante spazio a doppia altezza con una soluzione strutturale ingegnosa: un ballatoio sospeso sorretto da un complesso sistema di catene a vista.
Tuttavia Wright non abitò a lungo questa casa e pochi anni dopo scappò in Europa con Mamah, moglie del cliente Edwin Cheney, abbandonando la moglie, Catherine, e i figli. In seguito alla partenza di Wright, la casa e lo studio furono suddivisi in appartamenti per fornire una rendita alla sua ex famiglia. Un lungo restauro l’ha riportato oggi all’aspetto che aveva più di un secolo fa.

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Ottavo giorno: Racine, WI
Johnson Wax Administration Building – Frank Lloyd Wright, 1936

Abbandonato un Illinois ancora avvolto nella nebbia eccoci nel vicino Wisconsin. La pianura lascia il posto ad un paesaggio movimentato e affascinante costellato di fattorie e grandi silos. Ma poi una volta giunti a Racine, praticamente un sobborgo di Milwaukee, ci si ritrova in un’affascinante e inconsueta periferia industriale tardo ottocentesca, di quelle fatte di mattoni rossi e edifici bassi. Del resto la città si fa vanto di ospitare le più importanti fabbriche di birra del paese e soprattutto l’Harley Davidson.

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Non fa eccezione in questo paesaggio nemmeno la Johnson Wax. Avevano iniziato con i pavimenti ma ben presto, e per presto intendiamo alla fine del Ottocento, si risero conto che i prodotti per la pulizia erano ancora più redditizi dei pavimenti stessi. Da lì il passo per diventare un’industria chimica tra le più importanti al mondo fu breve come del resto non trascorse molto tempo prima che i profitti diventassero milionari.
Del resto ancora oggi da questa azienda escono prodotti che tutti noi abbiamo nelle nostre case, dai detersivi agli insetticidi, sono tutti marchi Johnson.
Fu così che negli anni trenta iniziò la costruzione dei nuovi uffici amministrativi per la quale fu incaricato Frank Lloyd Wright. L’idea di base del architetto fu quella di riprendere lo schema del Larkin Building di Buffalo (che abbiamo già visto fu demolito negli anni Cinquanta) creando un vasto spazio a tutt’altezza in cui disporre le scrivanie dei dipendenti.

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Questa l’idea di base ma stavolta, a trent’anni di distanza, Wright elaborò ulteriormente questo concetto realizzando uno dei più grandi capolavori della storia. In un epoca in cui il cosiddetto design Streamline spopolava in tutto il paese Wright letteralmente inventò una struttura puntiforme fatta di colonne a fungo (addirittura il diametro alla base è appena 22 centimetri) una affiancata all’altra, quasi come in un bosco di cemento attraverso le cui fronde una luce piacevole e soffusa illumina la grande sala di lavoro.
Una spazialità dilatata e eterea accentuata dai lucernari fatti con speciali tubi di vetro che, assieme agli stupefacenti arredi, creano uno spazio per uffici imponente ma al tempo stesso piacevole e sublime.
Pochi anni più tardi sarà poi la volta di realizzare i nuovi laboratori e fu allora che Wright inventò la famosa torre in cui piani rettilinei vengono intervallati da quelli circolari, il tutto rivestito sempre in mattoni rossi e tubi di vetro. Un oggetto, un simbolo prima ancora che un edificio. Un luogo che fa sembrare comune persino la contemporanea Casa sulla Cascata.

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Nono giorno: Spring Green, WI
Taliesin East – Frank Lloyd Wright, 1911–25-32-52

Era un caldo appiccicoso, di quelli tipici del Wisconsin, quel giorno di agosto del 1914. Il cameriere, Julian Carlton, aveva appena servito a Mamah e ai suoi due figli una gustosa zuppa. Un’istante dopo, dal nulla, tirò fuori un’accetta e li colpì. Prima la donna e poi, senza alcuna pietà, si accanì contro i bambini. Quando finì cosparse la casa di benzina e la diede alle fiamme appostandosi fuori dalla porta per trucidare uno a uno tutti gli altri collaboratori che tentavano la fuga dal rogo.
Quando la notizia giunse a Wright,  si trovava a Chicago per lavoro, così l’architetto salì sulla sua Lincoln Zephyr e si precipitò a tutta velocità a Taliesin che trovò ridotta a un cumulo di cenere. Aveva perso tutto.
Era una vendetta divina, mormorò qualcuno. Del resto l’America puritana di iniziò secolo non glielo perdonava. Non gli perdonava ciò che era successo dieci anni prima, ovvero un architetto di successo, sposato e con ben sei figli che abbandona la sua famiglia per scappare in Europa con la moglie di un suo cliente.
Eppure Wright aveva perso la testa per quella donna, Martha “Mamah” Cheney, donna colta e intraprendente oltre che fervente femminista, così abbandonò la  moglie -alla quale lasciò la Casa-Studio di Oak Park che abbiamo visitato in precedenza- e, dopo un lungo soggiornò in Europa -durante il quale fece anche tappa a Fiesole- tornò in America costruendosi una casa-studio, forse rifugio, a Taliesin, nelle tranquille campagne del natio Wisconsin.
Una storia drammatica, che avrebbe potuto essere raccontata da Truman Capote nel suo “In Cold Blood” che tuttavia è solo un tragico, necessario, antefatto alla storia dell’edificio.
Wright infatti, pur devastato dalla tragedia, reagì e ricostruì Taliesin; la ricostruì ancora una volta quando nel ’52 un nuovo incendio ne distrusse un’ala. Aveva più di ottant’anni allora.

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Ciò che ammiriamo oggi è, insomma, un progetto che si è stratificato nel corso di mezzo secolo. Una casa, quella dell’architetto, e -a poca distanza- uno studio di architettura che era però una vera e propria comune in cui i giovani aiutanti partecipavano alla vita della comunità, svolgendo qualsiasi tipo di mansione.
Famosissima la grande sala da disegno pensata con i lucernari aperti su un soffitto attraverso un suggestivo intreccio di travi in legno. Oggi è ancora in uso, sebbene il posto dei grandi tavoli  sia ora occupato da computer e stampanti.
C’è poi un teatro, aggiunto appunto nel ’52, nel quale si svolgevano spettacoli. Una vasta sala da pranzo, le camere dei ragazzi al piano superiore e anche il bizzarro mulino a vento denominato Romeo and Juliet.
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Poco distante, su una collina, la casa di Wright. “Taliesin” in gallese, terra d’origine della madre dell’architetto, significa appunto “ciglio luminoso”, quasi a voler attribuire un valore religioso a questo luogo. La casa è un esempio magistrale di abitazione usoniana che si sviluppa orizzontalmente irradiandosi da un fulcro, naturalmente rappresentato dal focolare.
Sarà qui che Wright sarà sepolto alla sua morte, nella sua terra natale e tra le sue amate colline malgrado la salma, per volere dei figli sia stata successivamente traslata a Taliesin West, l’analogo complesso di edifici -altrettanto magnifico- usato dall’architetto come residenza-studio nel deserto dell’Arizona e creato nel 1937 come rifugio per sfuggire ai freddissimi inverni del Wisconsin.

Ed è qui che, dopo oltre duemilaottocento chilometri, di fronte al cenotafio di Wright, che si conclude questo splendido viaggio alla scoperta dei pionieri americani del moderno.

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