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ROBERT MOSES E L’HIP HOP

26 agosto 2015
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Nell'agosto del 1974, tra le rovine del Bronx sventrato dalla highway voluta dall'urbanista Robert Moses, nasceva uno dei suoni più trasgressivi dei nostri tempi.

Nell’agosto di quarantadue anni fa, tra le rovine del Bronx sventrato dalla highway voluta dall’arroganza dell’urbanista Robert Moses, nasceva uno dei suoni più trasgressivi dei nostri tempi, durante la festa di una bambina giamaicana.
Può un distinto signore nato nel lontano 1888 aver  svolto un ruolo decisivo nella nascita dell’hip-hop, il genere musicale che ha segnato la cultura popolare degli ultimi tre decenni? Una domanda di questo tipo potrebbe risuonare come  una provocazione – ed in parte diciamo che lo è – ma in tutta la sua esagerazione, racconta una verità. Robert Moses, come mostrano le foto, non era esattamente il corpulento ragazzotto agghindato con catene d’oro e vestiti over-size, bensì un urbanista che non apprezzava affatto la cultura hip-hop di cui certamente detestava la musica e tutta l’atmosfera che intorno si stava sviluppando. Nonostante questo, le scelte urbanistiche per le quali oggi Moses viene ricordato, crearono sostanzialmente l’incubatore urbano ideale per la nascita di questo genere, a quei tempi definito “trasgressivo”.

Qualcuno ricorderà come l’hip-hop sia nato in un contesto urbano degradato, caratterizzato dal grigiume e dalla povertà dei servizi, un incubatore orribile, frutto della spregiudicata filosofia di distruzione e ricostruzione che Moses sosteneva e che ha senza dubbio  svolto un ruolo decisivo per lo sviluppo di una nuova cultura. Quest’uomo plasmò letteralmente New York durante quasi tutto il XX secolo e per questa ragione, da molti, veniva definito il Master Builder. Per avere un’idea della sua potenza, basti pensare che aveva alle proprie dipendenze oltre ottantamila uomini (!) per realizzare i propri progetti. Una parte di questi collaboratori lo accompagnavano quotidianamente in sopralluoghi che toccavano ogni angolo, non solo della città, ma dell’intero stato. Moses e il suo team erano facilmente e volutamente riconoscibili: si spostavano infatti a bordo di eleganti Limousine formando spesso dei “cortei” di una decina di vetture.
In una giornata del 1948, quando la guerra era da poco finita e l’economia degli Stati Uniti stava ripartendo, Moses venne illuminato da un’idea. Non si trattava ovviamente di mixare una certa base musicale ma, più in linea con il personaggio, di costruire un’autostrada. Stiamo parlando della Cross Bronx Expressway e cioè uno sproporzionato fiume di cemento a sei corsie che avrebbe consentito al traffico (in crescita esponenziale) che attraversava lo stato di New York, di collegare rapidamente il New Jersey al Connecticut. Il punto però era dove farla passare e cosa sventrare; si trattava di un mastodonte di traffico e calcestruzzo che avrebbe avuto sicuramente effetti devastanti sulla città, una sorta  di  vivisezione urbana.

L’idea di attraversare Manhattan non si prese nemmeno in considerazione, l’isola valeva troppo economicamente e la ricca ed influente aristocrazia che la abitava non lo avrebbe tollerato, quindi ci si spostò sulla parte alta della città, nel Bronx. Lassù il prezzo da pagare in termini sociali era ritenuto assolutamente accettabile. È con questa lucida e spietata decisione di viabilità che ha inizio il mito del Bronx inteso come una Gomorra sull’Hudson. Per i successivi trent’anni questo quartiere sarebbe infatti stato citato ovunque come esempio di degrado. In pochi mesi dalla fatidica decisione si diede il via ai dovuti sfollamenti e demolizioni, i valori degli immobili naturalmente precipitarono in modo repentino, i bianchi se la diedero a gambe levate, i proprietari degli immobili, disperati, si misero ad incendiare i palazzi sperando di recuperare almeno qualcosa dalle polizze assicurative e, in questa atmosfera labile, le bande presero facilmente in mano il controllo della zona e nel quartiere iniziò quel processo di deterioramento che lo faceva somigliare sempre di più ad una zona post atomica.
La violenza e il disagio sembravano dilagare ovunque. In quel periodo, in effetti, la città era ben diversa da quella di oggi: la metropolitana era un luogo da cui stare alla larga e negli aeroporti venivano persino consegnati degli opuscoli che insegnavano ai turisti a tenersi alla larga da certe zone e dai loro problemi.

Siamo nel 1973, negli stessi giorni in cui a Downtown Manhattan si inaugurava il nuovissimo World Trade Center, il Bronx è il set per il film Taxi Driver, in cui il genio di Scorsese immortala il declino di una metropoli in preda alla violenza e al drammatico disagio sociale vissuto dai tanti reduci del Vietnam. Qui la highway, appena inaugurata, aveva fatto sì che il quartiere, che deve il suo nome allo svedese Jonas Bronck, fosse divenuto un ghetto dal quale stare alla larga. In questa polveriera pericolosissima, un padre di famiglia come tanti stava avendo il suo bel da fare per cercare di accontentare le richieste della sua bambina. L’uomo era un immigrato giamaicano trasferitosi qui sei anni prima insieme alla moglie e ai suoi sei figli tra cui Cindy, la minore, allora undicenne, che chiedeva a tutti i costi di comprarle dei vestiti nuovi per l’inizio della scuola. I soldi mancavano e per questo Keith Campbell decise di organizzarle una festa di compleanno per poter racimolare del denaro. Era l’11 agosto, un sabato, e al primo piano del 1520 di Sedgwick Avenue si presentò una folla clamorosa pronta a pagare 50 cent (gli uomini, le donne la metà) per entrare.
Pagare? per andare alla festa di una ragazzina?  Sì la gente era pronta a farlo, anzi era in fila là sotto. La piccola Cindy probabilmente ancora se ne pavoneggia con le amiche, perché è proprio qui che possiamo dire che sia “nato” l’hip-hop.
Dispiace deludere tutti coloro che hanno immaginato la nascita dell’ hip-hop nelle fredde notti di strada tra pistole, droga e bidoni incendiati, ma la musica più trasgressiva degli ultimi cinquant’anni è nata in realtà per festeggiare una bambina. Il fratello maggiore della piccola, il sedicenne Clive, aveva infatti una grande passione per la musica, adorava James Brown, ed era egli stesso un vero e proprio genio creativo. Si era infatti messo in testa che si potessero usare due piatti con due dischi uguali e, con l’aiuto di un mixer, isolare da uno dei due i bassi e le percussioni, notando che era questa la parte del brano più apprezzata dai ballerini e iniziando quindi a enfatizzarla. Fu lui quel pomeriggio a far ballare la festa, con il suo nome d’arte: DJ Kool Herc.

La cosa fu rivoluzionaria. La gente perse letteralmente la testa, il tam tam di quartiere fu immediato e tutti, ma proprio tutti, corsero al compleanno della piccola Cindy attratti da quel modo inusuale di riprodurre musica. Questo evento di cultura popolare, classificabile come “da marciapiede”, che quel giorno trasformò quel piccolo party in un tassello di storia, sembra la perfetta dimostrazione di quanto la giornalista Jane Jacobs scriveva in quegli anni sulle colonne del The Village Voice, attaccando duramente l’operato di Moses e la sua visione di un’urbanistica totalitaria alla quale contrapponeva la spontaneità vivificatrice dei rapporti sociali che trovavano proprio nel marciapiede il primo, imprescindibile, habitat. Il resto è storia, da quel sabato pomeriggio di 42 anni fa al 1520 Sedgwick Avenue nel Bronx, l’ hip-hop ha conquistato il mondo ed è diventato un fenomeno di massa per le seguenti generazioni, creando un’industria milionaria.

(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York )

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