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UNA SECONDA FOTO, SEMPRE A CAZZO

MUSEI VATICANI E GUGGENHEIM

22 settembre 2015
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Il Guggenheim è considerato un'innovazione concettuale per la sua architettura eppure la sua forma è parente stretta della scala di accesso ai Musei Vaticani.

Quell’interminabile rettilineo che dall’arco di Washington Square si estende in direzione Nord attraverso Manhattan prendendo il nome di 5th Avenue, è probabilmente la più sfolgorante e riuscita celebrazione del sogno americano. Astor, Rockefeller, Trump, Rothschild, Vanderbilt: praticamente tutte le famiglie dell’aristocrazia imprenditoriale degli ultimi due secoli hanno lasciato il loro segno su questa strada. Nel rispetto di questa tradizione, negli anni ’40, l’anziano Solomon Guggenheim inizia la sua ricerca di un lotto sul quale costruire un nuovo museo, scegliendo un sito proprio lungo la Quinta Strada, nel tratto che sarebbe poi stato definito Museum Mile, non distante dal Metropolitan.

GuugQuella dei Guggenheim era una famiglia divenuta ricchissima nel breve volgere di una generazione. Emigrati dalla Svizzera a metà dell’Ottocento, avevano trovato la fortuna a Philadelphia. I due rampolli, i fratelli Benjamin e Solomon, ricchi e intraprendenti, vollero presto celebrare e legittimare la loro fortuna investendo nell’arte, uno scopo questo per cui il mecenatismo appariva perfetto. Benjamin purtroppo non ne ebbe il tempo, nella notte del 15 Aprile 1912, non appena gli comunicarono che la nave sulla quale viaggiava sarebbe affondata, decise di indossare lo smoking e da gran signore di lasciare il suo posto a bordo delle scialuppe a donne e bambini. Per la cronaca, il transatlantico su quale stava viaggiando era il Titanic. Tuttavia sua figlia Peggy ebbe modo, qualche decennio più tardi, di celebrare la volontà di Benjamin e legare indissolubilmente il proprio nome a quello dell’arte.

Per Solomon invece fu possibile dedicare l’ultima parte della sua lunga vita all’acquisto di miriadi di opere di artisti allora poco conosciuti. Aiutato dalla inseparabile Hilla Von Rebay, acquistò quadri straordinari direttamente dagli stessi autori, tra i quali Kandinsky, Delaunay, Léger, Moholy-Nagy, Gleizes e soprattutto Bauer. Le opere iniziarono presto ad accumularsi sulle pareti della suite dell’Hotel Plaza dove il magnate viveva. Nel 1937, finalmente, venne costituita una fondazione che pochi anni dopo incaricò il più importante architetto americano, Frank Lloyd Wright, di progettare un nuovo e straordinario museo lungo la 5th Avenue nel quale finalmente esporre l’eccellente collezione d’arte che avrebbe celebrato e reso immortale il nome dei Guggenheim. Un simbolo, un monumento ad una famiglia e al proprio architetto: tutto questo doveva rappresentare il nuovo edificio, prima ancora che un museo. Una gemma che spiccasse lungo la Millionaire’s Row e che elevasse Solomon al rango di grande aristocratico al pari delle altre illustri famiglie e dei loro formidabili edifici.

Il genio di Wright escogitò a questo scopo un edificio tutto sommato piccolo rispetto ai giganteschi grattacieli vicini, ma assolutamente iconografico nella sua semplicità modernista. Ancora oggi, la spirale del Guggenheim è uno dei simboli di New York. Il museo, secondo molti apologeti, ha avuto il merito di rivoluzionare il concetto novecentesco di galleria: qui i visitatori, condotti sulla sommità dagli ascensori, avrebbero ammirato le opere scendendo comodamente la rampa a spirale lungo la quale sarebbe stata disposta la collezione d’arte. Le opere sarebbero state illuminate dalla luce naturale che entra all’interno di questo “tornado di cemento” attraverso un suggestivo lucernario.

Parlare di quest’opera e del suo architetto è del resto quasi pleonastico, vista la quantità di saggi e di opere ad esso dedicati da parte dei più importanti studiosi. Eppure c’è un aspetto non certo inedito, ma assolutamente sottovalutato di questa architettura, che ci affascina: se è indiscutibile l’innovazione concettuale che essa ha prodotto, è altrettanto innegabile il debito formale che essa paga. Sì perché, a ben vedere, la sua forma è parente stretta, anzi, possiamo dire figlia, di un’opera romana di poco precedente: la scala di accesso ai Musei Vaticani.

Fu lo storico dell’architettura Vincent Scully il primo ad ipotizzare che Wright ebbe l’opportunità di visitare i musei durante il suo viaggio in Italia nel 1956 proprio durante l’ultimo concitato periodo in cui l’architetto delineò le linee definitive del museo. L’opera romana, progettata dal poco conosciuto Giuseppe Momo, risulta essere quasi un rovesciamento di quella newyorchese: tanto esplicita, moderna ed esibizionista quella della grande mela, quanto modesta, classica e introversa la sua antecedente romana. Mentre il maestro di Taliesin doveva celebrare il recente prestigio della ricchissima famiglia, a Momo il Papa chiedeva di rispettare il passato e di non alterare in modo invasivo i bastioni delle Mura Vaticane.

Laureatosi a Torino, sia ingegnere che architetto, Momo si trasferì a Roma all’indomani dei Patti Lateranensi e portò a termine numerosi lavori in qualità di Architetto della Reverenda Fabbrica di San Pietro. Il progetto del nuovo ingresso dei Musei Vaticani fu commissionato da Pio XI proprio nel 1929, che si interessò in prima persona al disegno imponendo modifiche e cambiamenti. Sebbene ad esempio, in una prima stesura, si proponesse una rampa esterna, il Santo Padre propose di costruire il nuovo ingresso scavando una sorta di pozzo all’interno del terrapieno rappresentato dagli antichi bastioni. Momo si ispirò a sua volta al Pozzo di San Patrizio realizzato da Sangallo ad Orvieto, proponendo una brillante soluzione costituita da una doppia rampa elicoidale che potesse permettere ai flussi di visitatori in entrata e quelli in uscita di incrociarsi senza però toccarsi mai. La tecnologia, assolutamente modernissima, è quella del cemento armato con una parete portante e le rampe aggettanti che compiono uno sbalzo di oltre tre metri, ma l’aspetto viene reso più “classicheggiante” con i parapetti in bronzo e rivestimenti in marmo. Sulla sommità, anche qui, un lucernario che rivela in modo inequivocabile la paternità, quanto meno formale, del progetto di Wright.

Certo è impossibile ignorare che la grandezza del museo newyorchese va ben oltre le forme architettoniche e si estende al rapporto stesso tra visitatore ed opera. Le rampe dei Vaticani rappresentano “solo” una soluzione tecnologica per superare un dislivello altimetrico, una soluzione splendida ed elegantissima, ma pur sempre priva di velleità tipologiche che ritroviamo al contrario nell’invenzione di Wright. Nonostante questo, sembra legittimo tributare a Giuseppe Momo una parte di meriti nella storia dell’architettura moderna. Del resto, al contrario di quanto piace affermare a taluni che vedono l’architettura e l’arte progredire esclusivamente per merito dalle rivoluzionarie intuizioni di geni ribelli, ci troviamo più spesso di fronte ad un percorso continuo e costante in cui l’innovazione scaturisce dall’osservazione e dall’imitazione di modelli più antichi e dalla loro evoluzione e interpretazione. Senza il poco noto capolavoro di Momo probabilmente il Guggenheim sarebbe stato un’opera comunque geniale, ma non l’icona che è riuscita a rendere lo spirito e la memoria del vecchio Solomon un simbolo del XX secolo.

(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York – foto di Flavia Rossi)

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