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UNA FOTO A CAZZO

HORACE GIFFORD E LE VILLE DI FIRE ISLAND

7 ottobre 2015
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Integrate nel paesaggio naturale, rifugio della comunità gay newyorchese, le case di Pines, progettate dall’architetto Horace Gifford, sono quasi il manifesto di un diverso stile di vita.

Integrate nel paesaggio naturale di Fire Island, idilliaco rifugio della comunità gay newyorchese, le case del villaggio di Pines, progettate dall’architetto Horace Gifford, sono il manifesto di uno stile di vita a bassa manutenzione e un’estetica che si fonde con gli alberi. Interni proiettati verso l’esterno, grandi finestre, ponti e percorsi semi-naturali sono la cifra di abitazioni dal lucco minimale, in cui abitarono anche Marilyn e Capote

Integrate nel paesaggio naturale di Fire Island, idilliaco rifugio della comunità gay newyorchese, le case del villaggio di Pines, progettate dall’architetto Horace Gifford, sono il manifesto di uno stile di vita a bassa manutenzione e un’estetica che si fonde con gli alberi. Interni proiettati verso l’esterno, grandi finestre, ponti e percorsi semi-naturali sono la cifra di abitazioni dal lucco minimale, in cui abitarono anche Marilyn e Capote.

Il nome di Horace Gifford non dirà granché ai più, del resto non è menzionato tra i grandi maestri del movimento moderno, eppure in una sottile striscia di terra lunga 31 miglia di fronte Long Island, questo raffinato architetto, in totale stato di grazia con il luogo, creò dei veri e propri capolavori. Fire Island non sarebbe del resto il rifugio idilliaco che conosciamo oggi senza le 63 splendide case che Gifford ha progettato qui sul mare tra il 1961 e il 1980. Quasi tutte sorgono in una località raggiungibile solo via mare e semi-disabitata nei mesi invernali, che fu lo scenario paradisiaco in cui il suo genio poté esprimersi liberamente dando vita ad una serie di opere che, pur moderne, si proclamavano estranee al mainstream preferendo dialogare con la tradizione locale. Stiamo parlando del noto villaggio chiamato Pines.

Donghia House

Donghia House

Quando nei primi anni Sessanta la grande espansione dei suburbia newyorchesi accelerò, si puntarono gli occhi anche su quest’isola, immaginando un’imponente serie di ponti autostradali che, collegandola con la terra ferma, la rendessero una nuova località balneare di massa. A proporre un tale spregiudicato progetto fu naturalmente lui, Robert Moses, l’onnipotente e ambizioso master builder newyorchese. Fortunatamente nel 1964, dopo una lunga battaglia, il governatore dello stato Nelson Rockfeller firmò il cosiddetto Seashore Act che, di fatto, avrebbe salvaguardato queste spiagge impedendo ogni progetto speculativo. Fu questa una delle pochissime sconfitte nella  carriera di Moses che, infatti, non la prese affatto bene.
Dunque grazie a questo provvedimento e alla determinazione di un manipolo di pescatori ed intellettuali, ancora oggi questa striscia di sabbia resiste incontaminata e avulsa al clamore delle masse. Il rifugio esclusivo per la gente più raffinata e in particolare per la comunità gay. Se c’era quindi un luogo in America dove negli anni Sessanta si potesse fare un’architettura tanto moderna quanto singolare, questo non poteva che essere qui.

Nato e cresciuto a Vero Beach (FL), Horace Gifford frequentò la University of Florida a Gainesville e si trasferì poi a New York per lavorare presso uno studio di architettura. Seguì dunque un master program all’Università della Pennsylvania ed ottenne una borsa di studio per lavorare col famoso architetto Louis Kahn. “Un giorno – disse – impareremo a convivere con la natura, invece di vivere in natura”. Questo suo approccio sembra permeare in ognuno dei sui lavori; la sua interpretazione dei dettami moderni è personalissima e assolutamente dirompente, specie nell’America di quel tempo: sembra riuscire infatti a coniugare le forme moderne di Neutra con l’approccio organico di Wright attraverso la solennità di Kahn. Una sintesi insomma dei tre più grandi maestri del Novecento a stelle e strisce.

Geometrie essenziali ed elegantissime, materiali naturali e rigorosamente autoctoni in contrapposizione ad un’epoca che vide l’affermarsi di uno stile globale. In media i suoi progetti si aggiravano intorno ai 1.000 piedi quadrati, l’interno era proiettato verso l’esterno con finestre di grandi dimensioni, ponti, e percorsi semi-naturali. Lo stile architettonico era piuttosto seducente, con pavimenti in legno e soffitti specchiati, il soggiorno ad un livello più basso per creare un “pozzo di conversazione” e docce esterne, rigorosamente a vista. A seguire c’erano i giochi di luce, ombra, occultamento. Gifford ha composto e rivestito le sue strutture, dentro e fuori, con il cedro: una scelta che ha incoraggiato un tocco leggero sulla terra, a favore di uno stile di vita a bassa manutenzione e un’estetica che si fonde tra gli alberi. Proprio per questo motivo le sue case appaiono oggi come parte del paesaggio naturale, quasi fossero lì da sempre a sfidare i venti dell’oceano.

Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Montgomery Clift e infine Truman Capote, che qui si rifugiò già per scrivere Colazione da Tiffany, hanno tutti soggiornato in una delle case progettate da Gifford. Non si trattava solo di viverci ma piuttosto di sposare, abitandole, una vera e propria filosofia di vita, che oggi potrebbe apparire chic ma che allora era inedita: l’architetto non prevedeva nelle sue abitazioni recinzioni, superfici verniciate, prati falciati, lavatrici e persino le porte venivano ridotte all’essenzialità permettendo di vivere in armonia totale con questi luoghi splendidi e incontaminati. Non una banale riscoperta della dimora primitiva o tradizionale, come potrebbero essere le baracche dei pescatori sulle spiagge, piuttosto un’ interpretazione non convenzionale della modernità attraverso forme architettoniche talvolta elaborate sempre con lo scopo di offrire una qualità di vita “semplicemente lussuosa”.

La prima casa, costruita per sé, risale al 1961, da allora e per un ventennio saranno numerosissime le abitazioni che Gifford realizzerà soprattutto ai Pines. Nel ’62 ricordiamo la prima commissione: la Wittstein-Miller House. I due, una coppia gay che scelse l’isola come rifugio per le proprie vacanze, si rivolsero al giovane architetto che disegnò per loro un’abitazione elegante e luminosissima nella quale erano già presenti tutte le tematiche che Gifford svilupperà nella sua carriera. Il soggiorno, sempre in posizione baricentrica, completamente vetrato si apre sul paesaggio circostante mentre attorno i volumi lignei e pieni delle camere da letto delimitano lo spazio emergendo dalla bassa duna sabbiosa. I veri capolavori però vedranno la luce tra il 1965 ed il ‘66 e si tratta del Burge Pavilion che, con un occhio alle precedenti opere del suo mentore Louis Kahn e di Frank Lloyd Wright, Gifford progettò con un focus sulle torri che strategicamente incorniciavano incantevoli e studiate viste sull’oceano e la Evans-DePass House. Entrambi gli edifici rappresentano il manifesto dell’opera di Gifford: modernità austera, la monumentalità senza tempo dei volumi primitivi ottenuta però con il legno tipico di Fire Island impreziosiscono il paesaggio naturale che sembra attraversarle.

Gifford, gay fiero e dichiarato, morirà agli inizi degli anni Novanta ma il suo sogno, continuerà ad affascinare e questa piccola isola affacciata sull’Atlantico non solo sembra sfidare i venti e il mare ma anche i luoghi comuni della ricchezza e dell’esclusività proponendo un minimalismo e un’armonia con la natura di cui, a distanza di mezzo secolo, sentiamo sempre più bisogno.

(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York )

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