Nel bel mezzo della notte Ron si svegliò rendendosi conto che stavano sbagliando tutto, bisognava ad ogni costo ricominciare daccapo. A quel punto però la sua mente fu attraversata da un brivido di terrore, era letteralmente impietrito. Sì perchè se davvero era come diceva lui, l’indomani avrebbe dovuto comunicare al suo capo che gli ultimi sei mesi di lavoro erano da buttare e, ne era certo, questa notizia avrebbe scatenato un putiferio. Cosa piuttosto prevedibile a maggior ragione se lui si chiama Steve Jobs.
Non si sbagliava, ovviamente. Il CEO di Cupertino era del resto già allora, e stiamo parlando del 2000, guardato come una semi-divinità di cui tutti conoscevano le doti eccezionali ma dal quale si cercava di stare il più possibile alla larga viste le sue spaventose sfuriate non meno leggendarie.
Quando infatti quella mattina Steve ascoltò ciò che Ron Johnson aveva da dirgli perse le staffe, gettò a terra ciò che c’era in quel momento sul tavolo, si alzò e andò nel suo ufficio. Quando ne uscì riunì il team di lavoro per annunciare che il progetto ripartiva da zero. Jobs aveva capito che Johnson non si sbagliava, il loro segretissimo concept per uno store di soli prodotti Apple, doveva essere semplicemente perfetto e non si potevano accettare compromessi. A quel punto fu Steve a tranquillizzare Ron: come era stato per il Macintosh o per Toy Story, ogni volta che nella sua vita aveva realizzato qualcosa di successo -ricordò- si era presentato prima un momento in cui premere il tasto rewind.
Ron Johnson -il responsabile del progetto Apple Retail Store- rincuorato, pretese a quel punto che gli fosse messo a disposizione un enorme e anonimo magazzino della Silicon Valley nel quale segretamente, lui e suoi uomini, avrebbero potuto costruire un prototipo al vero di ciò che aveva in mente. Jobs annuì.
Quattro mesi più tardi quell’azzardo diede i suoi frutti e lo fece contro ogni più ragionevole pronostico. All’annuncio che Cupertino avrebbe aperto dei propri punti vendita infatti gli esperti del settore si fecero una gran risata pregustando quello che sembrava un’inevitabile e fragoroso fallimento. Del resto erano quegli gli anni in cui la Dell vendeva i propri computer esclusivamente online e appariva chiaro che sarebbe stato quello il futuro del commercio. Business Week pubblicò un articolo -oggi spesso citato- dal titolo “Spiacenti Steve, ecco perchè gli Apple Store non funzioneranno” ma lui, Steve, aveva in serbo qualcosa che non potevano ancora immaginare.
In una tiepida giornata di giugno Jobs trascinò l’intero consiglio direttivo fuori dagli uffici fino quell’anonimo magazzino, quando gli scettici dirigenti ne varcarono la soglia capirono immediatamente che avevano fatto bingo. Uno spazio minimale, luminoso e accogliente nel quale i prodotti facevano si bella mostra di sé, ma in cui i veri protagonisti sembravano essere i clienti. La cosa sconvolgente era in effetti che Apple all’epoca aveva nel suo catalogo non più di una manciata di dispositivi: i nuovissimi e coloratissimi iMac e i portatili, nient’altro. Il mitico, primo, esemplare di iPod, sarebbe stato del resto presentato solo l’anno successivo. Eppure quello che poteva sembrare un limite divenne il vero punto di forza del progetto Apple Store; uno spazio essenziale, ben lontano dai grigi negozi d’informatica stipati di prodotti e in cui i computer di Cupertino potevano essere utilizzati da chiunque senza bisogno di commessi insistenti o di tecnici che ne spiegassero il funzionamento. Un’intuizione dirompente. Naturalmente anche il design dello spazio avrebbe dovuto sposare questa filosofia accentuandone l’aspetto rivoluzionario senza rinunciare all’eleganza. E così fu.
Certo in un primo momento Apple scelse di collocare i suoi primi store nei più importanti centri commerciali ma ben presto ci si rese conto che bisognava cercare luoghi diversi. Se si voleva trasformare la Mela in un’icona occorreva che i negozi sorgessero in luoghi altrettanto simbolici non solo cioè nelle più importanti città del mondo ma esattamente nel loro cuore. E le cose andarono proprio così.
Oggi, oltre quindici anni dopo, Apple è l’azienda più importante del mondo, i suoi negozi sono cinquecento e passa in quasi trenta paesi diversi ma soprattutto molti di essi sono diventati dei veri e propri punti di riferimento urbani, quasi dei monumenti, anche perché si è progressivamente capito che non bastava limitarsi all’allestimento quanto piuttosto occorreva immaginare delle vere e proprie architetture. Ecco non ci sembra di esagerare nel considerare alcuni store come le architetture più iconiche dei nostri giorni. Un’esagerazione? Probabilmente no. L’esempio paradigmatico del resto lo si può ammirare al 767 di 5th Avenue ma l’indirizzo è superfluo perché tutti ormai sanno di cosa si tratta. All’angolo sud-orientale di Central Park, il prisma di vetro dell’Apple Store più famoso del mondo è ormai diventato uno dei simboli indiscussi di New York. Pensare che la sua nascita si deve esclusivamente ad un’operazione immobiliare. Nel 2003 infatti Harry Macklowe aveva sborsato la bellezza di un miliardo e mezzo di dollari per acquistare il GM Building; una cifra folle, un azzardo. Ma Macklowe sapeva che per rientrare dell’investimento occorreva monetizzare ogni centesimo per questo non si capacitava del fatto che quel grattacielo occupasse solo una porzione del terreno disponibile, l’altra era “sprecata” per un’inutile e desolata piazza. In Italia dove le piazze le abbiamo inventate può sembrare folle ma nella Grande Mela -in cui ogni frammento di terreno corrisponde a un potenziale profitto milionario- rinunciare a costruire concedendo spazio alla città è quasi impensabile e infatti le piazze, se si escludono le “anomale” intersezioni tra Broadway e le altre strade, praticamente non esistono. C’è un solo precedente in effetti, quello ideato da Mies van der Rohe di fronte al celebre Seagram Building su Park Avenue, Macklowe però non era certo Mies e per lui quello spazio era solo denaro che andava in fumo. A quel tempo però aveva un paio di buoni amici ai piani alti di Cupertino ed era così venuto a sapere delle future strategie aziendali sui nuovi Apple Store. Quale posto migliore? Si fece allora procurare un incontro direttamente con Steve Jobs che dal canto suo fiutò immediatamente l’opportunità e l’accordo fu immediato. Il resto lo fece la matita di Bohlin Cywinski Jackson che si inventò l’iconico cubo di dieci metri per lato completamente vetrato, versione trasparente e hi-tech del monolite kubrickiano di 2001 Odissea nello Spazio. Vetro strutturale fu definito; non c’era in pratica più bisogno di nessun supporto per una leggerezza impensabile fino a quel momento. L’Apple Store sembrava esaurirsi in quel cubo con “mela” e la sua scala -anch’essa completamente vetrata- che conduceva al negozio sotterraneo. Minimalismo all’ennesima potenza..o forse no visto che già nel 2011 Jobs -che sarebbe mancato di lì a poco- volle a tutti i costi dei milionari lavori di restyling. No, non per ingrandirne lo spazio ma per “solo” per ridurre ulteriormente il numero di pannelli vetrati che componevano il celeberrimo cubo. Si passò dalle originarie 18 alle sole 3 -enormi- della versione attuale. Il costo? Appena 7 milioni di dollari. Un prezzo che per Jobs deve essere sembrato assolutamente ragionevole in nome della sua ossessione per il minimalismo.
In ogni caso da lì in poi fu un crescendo: Londra, San Francisco, Hong Kong, Tokyo..ovunque aprirono negozi dall’aspetto inconfondibile e in luoghi sempre più prestigiosi. A Parigi addirittura uno all’interno del Louvre mentre -ancora a New York- un altro nel Main Concourse della Grand Central Station, stavolta così minimale che praticamente non aveva nemmeno un’insegna che potesse contaminare l’originario aspetto di quel luogo. Un’attenzione che tanti altri marchi, ancora oggi, non hanno.
L’intuizione degli Apple Store si è dimostrata insomma clamorosamente vincente eppure, quest’anno, per la prima volta, qualcosa cambierà. Ad annunciarlo è stata, sul palco dell’ultimo keynote lo scorso settembre, direttamente Angela Ahrendts, la nuova responsabile del programma Apple Retail Store, che ha illustrato le imminenti novità. Già da qualche anno infatti la progettazione di tutti gli store di Cupertino è stata affidata a Sir Norman Foster che nel frattempo ha disegnato anche il mastodontico Apple Campus: un’astronave circolare più grande del Pentagono inaugurata -solo pochi mesi- fa e dove è stato trasferito il quartier generale che un tempo sorgeva al numero 1 di Infinite Loop.
Il tocco di Foster si sta dimostrato discreto ma ben riconoscibile e gli store stanno gradualmente cambiando anche la loro filosofia; non più negozi ma una sorta di spazi pubblici. Quelli che la Ahrendts ha definito trionfalmente come un “foro”, una piazza nella quale la gente possa trascorrere liberamente il proprio tempo, incontrare gli amici, assistere a esibizioni, talks e conferenze in stile TED e -a margine di tutto ciò- ovviamente, comprare un nuovo laptop o uno smartphone. Certo tutto questo appare oggi a uno scenario abbastanza irreale, quasi una forzatura ma, come al solito, anche questa volta Apple sta anticipando il nostro probabile futuro. A ben vedere in effetti si tratta di un concetto su cui già da molti anni si basano i caffè Starbucks anche se la Ahrendts e il suo team lo stanno spingendo sino ad una scala urbana. Con l’aiuto di Foster infatti stanno nascendo proprio in questi mesi i primi punti vendita ispirati da questo nuovo approccio ed è così che dobbiamo leggere ad esempio il nuovo negozio di Chicago: non più pareti ma solo gigantesche vetrate sovrastate da una copertura leggerissima che richiama il corpo di un MacBook Air: una versione commerciale del Less is More -e non solo- tanto cari a Mies. È però l’interno a segnare la svolta. Una scenografica scalinata di pietra conduce il visitatore -Apple ci tiene a non definirlo solo cliente- da Michigan Avenue direttamente sulle sponde del Chicago River ben otto metri più in basso. Sì nel mezzo ci sono esposti anche gli ultimi iPhone e iPad ma apparentemente questo sembra un aspetto secondario e probabilmente non ci poteva essere marketing più geniale. Non è l’unico esempio, sono diversi ormai i nuovi store che hanno inaugurato la nuova filosofia, architetture di grandissimo spessore o come li ha definiti la Ahrendts “i prodotti più grandi del catalogo Apple”. Quello Dubai è una grande struttura circolare affacciata di notte direttamente sul Burj Khalifa, quasi si trattasse di una terrazza panoramica, mentre di giorno gli infuocati raggi solari sono oscurati da pannelli mobili che si richiudono come delle enormi Mashrabiya (le tipiche griglie della cultura araba).
A questa lista si aggiungerà poi presto Milano, che la prossima primavera vedrà nascere, nella centralissima piazza Liberty, il primo Apple Store “urbano”. Una cascata che sembrerà emergere dal nulla sotto la quale, attraverso una scalinata -che all’occorrenza potrà diventare una platea per spettacoli e cinema all’aperto- si accederà al negozio vero e proprio anche in questo caso ipogeo. Il tutto porterà naturalmente la firma Norman Foster.
Eppure lo sfavillante minimalismo di materiali high-tech, vetro e calde essenze di legno appositamente selezionate, nasconde un’inquietante realtà; il progressivo e quasi impercettibile declino dello spazio pubblico e del suo ruolo. È evidente infatti che se strade e piazze avessero mantenuto lo stesso ruolo del passato nessuno oggi sentirebbe il bisogno di qualcosa di simile. Ma del resto si sa, a Cupertino, solo una cosa fanno meglio dei loro prodotti e cioè farci credere che i loro non siano solo prodotti. Così questi negozi, come dice la Ahrendts, sono l’hardware mentre la gente che li popola, cioè noi, siamo il software..un software sempre più Designed by Apple in California.
(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York)